più efficace



Un’espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Esso infatti dice da solo che la realtà è troppo al di là di ogni parola. Alta risuona nella Bibbia l’intimazione: “Taccia davanti a lui tutta la terra!” (Ab 2, 20) e: “Silenzio alla presenza del Signore Dio!” (Sof 1, 7). Quando “i sensi sono avvolti da uno sconfinato silenzio e con l’aiuto del silenzio invecchiano le memorie”, allora non resta che adorare.
Secondo alcuni, la parola stessa “adorare” indicherebbe, nel latino, il gesto di mettersi la mano sulla bocca, come ad imporsi silenzio. Se ciò è vero, fu un gesto di adorazione quello di Giobbe quando, venutosi a trovare a tu per tu con l’Onnipotente, alla fine della sua vicenda, dice: “Ecco, son ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca” (Gb 40,4). In questo senso, il versetto di un salmo, ripreso poi dalla liturgia, nel testo ebraico diceva: “Per te è lode il silenzio”, Tibi silentium laus! (cf Sal 65,2, testo Mas.). Adorare -secondo la stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno – significa elevare a Dio un “inno di silenzio”. Come a mano a mano che si sale in alta montagna l’aria si fa più rarefatta, così a mano a mano che ci si avvicina a Dio la parola deve farsi più breve, fino a diventare, alla fine, completamente muta e unirsi in silenzio a colui che è l’ineffabile (Ps-Dionigi Areopagita).
L’adorazione esige dunque che ci si pieghi e che si taccia. Ma è, un tale atto, degno dell’uomo? Non lo umilia, derogando la sua dignità? Anzi, è esso veramente degno di Dio? Che Dio è se ha bisogno che le sue creature si prostrino a terra davanti a lui e tacciano? E’ forse, Dio, come uno di quei sovrani orientali che inventarono per sé l’adorazione? Così pensava Nietzsche che definisce il Dio biblico “quell’orientale avido di onori nella sua sede celeste”.
E’ inutile negarlo, l’adorazione comporta per le creature anche un aspetto di radicale umiliazione, un farsi piccoli, un arrendersi. Fu proprio questo, si è visto, a trattenere i pagani dall’adorare Dio come Dio. Proprio così essa attesta che Dio è Dio e che niente e nessuno ha diritto di esistere davanti a lui, se non in grazia di lui. Con l’adorazione si immola e si sacrifica il proprio io, la propria gloria, la propria autosufficienza. Ma questa è una gloria falsa e inconsistente, ed è una liberazione per l’uomo disfarsene.
Adorando, si “libera la verità che era prigioniera dell’ingiustizia”. Si diventa “autentici” nel senso più profondo della parola. Nell’adorazione si anticipa già il ritorno di tutte le cose a Dio. Ci si abbandona al senso e al flusso dell’essere. Come l’acqua trova la sua pace nello scorrere verso il mare e l’uccello la sua gioia nel seguire il corso del vento, così l’adoratore nell’adorare.
Raniero Cantalamessa

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