voce sottile


In ebraico ci sono cinque modi che indicano il silenzio: Dumià-Demamà, la prima parola; poi Schtiqà -da sheqet-; ancora cheresh (che significa sordo e muto); e poi ilem (muto); e infine rashà (tacere qualcosa col silenzio, tacere un segreto). Io parlerò solo di “Demamà”, la prima di queste parole che vi ho indicato. In ebraico le parole sono sempre anfibie, hanno sempre ALMENO due vite, due significati. Nell’anfibiologia c’è un grande godimento semantico, lo stesso che troviamo nel witz, nel doppio senso e nel motto di spirito, quell’umorismo ebraico tipico degli shtetl e del mondo ashkenazita. La parola “Demamà”, silenzio, rimanda alla parola sangue, Dam, a indicarne la sostanza vitale e fondante dell’Essere, e l’importanza che lo Shabbat attribuisce al silenzio. Ma la parola Dam, sangue, rimanda al verbo Domè, somigliare, rimanda a una forma di somiglianza. Con chi? Con la trascendenza e con il divino. Senza contare poi quella meravigliosa espressione che troviamo nella Torà, “Kol Demanà Dakà”, una voce di sottile silenzio, la voce che parla nel fine silenzio. Non è straordinariamente poetico? Il silenzio, il sangue, la somiglianza con la trascendenza sono così intimamente legati tra loro

Marc-Alain Ouaknin

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