natività



È notte, Mayadevi, sposa del sovrano degli Shakya, dorme quietamente, e sogna: un elefante bianco a sei zanne discende dal cielo ed entra nel suo fianco sinistro senza provocarle alcun dolore. Al mattino la regina racconta il sogno al consorte, che ne chiede l'interpretazione ai sacerdoti; il loro responso è gioioso: da quella fecondazione miracolosa nascerà un principe, che diventerà o un sovrano universale nella sfera politica e militare, oppure un Buddha, un Risvegliato in quella spirituale.
Trascorrono i mesi, Mayadevi sente avvicinarsi il momento del parto e – con le parole del grande poeta Ashvaghosha (I sec. d.C., traduzione A. Passi) – «rivolge la propria mente, libera da stanchezza, dolore e illusione, alla pura, immacolata foresta». Sente l'impulso a cercare «un luogo nel bosco adatto al raccoglimento» e lì, nei pressi di Lumbini, il re un poco stupito e il seguito la accompagnano. È il plenilunio di maggio: in posizione diritta, la mano destra alzata che stringe dolcemente il ramo di un albero, il corpo ignaro di doglie nella postura sinuosa caratteristica della donna indiana, la regina partorisce dal fianco destro lo straordinario bimbo, Siddhartha, accolto dal tripudio universale perché destinato a diventare il Buddha.
Nella religiosità dell'Asia, dall'India alla Cina, dal Tibet al Sud-Est e al Giappone, da lì recentemente verso Europa e Americhe, poche immagini hanno la potenza spirituale e la suggestione estetica di questa «natività». Alcuni dei simboli sono decisamente indiani: l'elefante bianco a sei zanne, immagine eccezionale e di buon auspicio, la foresta come luogo di raccoglimento interiore, il legame fra la donna e la vegetazione feconda, che qui evoca anche il rinnovarsi della via verso la salvezza annunciata nel mondo dal Buddha. Ma il concepimento e la nascita di Siddhartha che splende «come se fosse disceso dal cielo, poiché… nato senza contatto con il grembo», corrisponde al concepimento casto di Gesù. E riflette un'esperienza profonda di purezza che circonda la discesa del divino nel mondo, radicata nell'animo umano a Ovest come a Est; anche se il Buddha, almeno alle origini, non è sentito come Dio, ma come colui che ha liberato l'umanità dal dolore attraverso il processo della conoscenza, si tratta in ogni caso della discesa di un principio spirituale rinnovatore.
Forse meno noto è che sempre in India anche l'antico re degli dèi vedici, Indra, non nasce per la via naturale, ma dal fianco della madre; e questo per sua stessa determinazione: «Io no, non voglio uscire da lì; questo è un passaggio pericoloso: uscirò di traverso, per il fianco. Molte cose che non sono state ancora fatte io devo fare: con qualcuno dovrò combattere, a qualcun altro dovrò fare richieste» recita il sacro inno del Rigveda (IV, 18, 2, traduzione S. Sani). Non ancora nato, il Dio è cosciente delle prove che lo attendono: mettere ordine nel caos del cosmo, dominato dalle potenze anti-divine che favoriscono l'informe e l'oscuro; chiamare ad allearsi con lui, attraverso la scelta, proprio alcune di quelle potenze. Del concepimento e del padre di Indra dai testi non sappiamo, ma anche nel suo caso la nascita è pura e la sua opera è volta al rinnovamento: della natura che ne risulta ordinata e ritmata (fluire delle acque, alternanza di giorno e notte e delle stagioni, fecondità), dello spirito, chiamato per la prima volta a prendere posizione fra male e bene, o meglio fra caotico e ordinato, con questa scelta determinando l'eterna dinamica delle due polarità.
All'evidenza, le analogie e le differenze fra buddhismo, induismo e cristianesimo rientrano tutte in una tematica ancora più vasta e suscettibile di confronti: quella della manifestazione del divino nel mondo. E qui un possibile pregiudizio, a carico dell'induismo, appare da sfatare: nonostante le numerose teste, braccia, gambe con cui spesso si presentano, le divinità indiane – tutte, supreme o minime – sono essenze puramente spirituali; in sé, quindi, non hanno nessuna forma e dimorano (se la metafora è lecita) in una dimensione trascendente. La convinzione è testimoniata perfettamente dai templi hindu, veri e propri diagrammi religiosi dell'universo; da un certo livello dell'alzato, infatti, le fantasmagoriche raffigurazioni scultoree di dèi e semidèi scompaiono lasciando il posto esclusivamente a decorazioni astratte, per significare così l'assenza di forma del divino.
Ma gli dèi possono decidere di «scendere» nel tempo-spazio fenomenico, di incarnarsi per intervenire a difesa dell'integrità religiosa, cosmica, etica: assumono così le forme (murti in sanscrito) appropriate alle diverse circostanze e spesso riconoscibili dalle caratteristiche eccezionali. Questa dinamica appartiene a tutti gli dèi e soprattutto i supremi, Shiva, Devi, cioè la grande Dea femminile, e Vishnu si manifestano in murti innumerevoli. Ma in particolare per quest'ultimo, la serie delle «discese» (avatara in sanscrito) è stata configurata sistematicamente: sono le dieci manifestazioni del Dio, che dichiara nella Bhagavadgita (IV, 7-8, traduzione S. Piano), il Vangelo di centinaia di milioni di hindu: «Infatti, ogni volta che si verifica / ... un declino del dharma / e una crescita dell'adharma/, allora io genero me stesso nel mondo. // Per la protezione dei buoni / e la rovina dei malvagi, / allo scopo di ristabilire il dharma, / io mi manifesto in ogni era cosmica», dove dharma è per l'induismo la legge sacra unitaria che governa a un tempo la realtà divina, quella sociale umana e quella naturale.
È dunque profondamente radicata nella religiosità hindu, come forse in ogni religiosità, l'evidenza che Dio si incarna nel mondo; la differenza grande con il cristianesimo, nella somiglianza dell'esperienza interiore, è che l'incarnazione si ripete di età in età, legata alla struttura ciclica e quindi ricorsiva del tempo; e soprattutto che, per essere creduta, questa verità non necessita di essere storica. Vive nel mito, e quindi nel cuore dei fedeli, perché la concezione indiana include anche il mito, anzi lo privilegia nell'ambito di una visione non separativa ma totale della realtà. Così Vishnu, lungo lo svolgersi delle ere cosmiche, si incarna in forme animali (il pesce, la tartaruga, il cinghiale), miste (l'uomo-leone) e umane adatte nelle diverse situazioni a risollevare il dharma. Le più complete sono quelle di Rama e di Krishna, così amate da divenire divinità autonome, ma identificate al Supremo. Entrambi nati da genitori umani, sono mortali e guerrieri; Krishna è l'auriga di Arjuna, uno degli eroici protagonisti della grande epopea nazionale indiana, il Mahabharata. Rama viene al mondo per affrontare e uccidere il potente demone Rávana, sovrano di Lanka (Ceylon). In Rama i confini fra umanità e divinità sono fluidi: per esempio soffre molto umanamente, fino a rasentare la follia, quando l'adorata sposa Sita sembra irrimediabilmente rapita, proprio da Ravana, o quando nessuno sa come si possa varcare l'oceano per raggiungere l'isola, dove si è scoperto che è tenuta prigioniera. La domanda su quale natura di Rama soffra, quella umana o quella divina, non appartiene alla sensibilità indiana, neppure quella filosoficamente più agguerrita; la permeabilità fra le due dimensioni, la misteriosa natura di Dio dove coesistono trascendenza inconcepibile e immanenza, riflette però la certezza della sostanza divina, anzi assoluta, che costituisce l'essenza reale e unica di ciascun essere umano. 

Giuliano Boccali

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